Definizione


"Dal verbo suchen (cercare) i Tedeschi fanno il participio presente, suchend, e lo usano sostantivato, der Suchende (colui che cerca), per designare quegli uomini che non s'accontentano della superficie delle cose, ma d'ogni aspetto della vita vogliono ragionando andare in fondo, e rendersi conto di se stessi, del mondo, dei rapporti che tra loro e il mondo intercorrono. Quel cercare che è già di per sè un trovare, come disse uno dei più illustri fra questi 'cercatori', e prescisamente sant'Agostino; quel cercare che è in sostanza vivere nello spirito."

Massimo Mila

(dalla nota introduttiva in Siddartha di Hermann Hesse)

lunedì 13 aprile 2015

Marvel's DAREDEVIL by NETFLIX - Recensione



Marvel's Daredevil by NETFLIX, si è fatta a lungo attendere, accrescendo a dismisura le aspettative su questa serie. Venerdì scorso (10 aprile 2015) NETFLIX ha finalmente diffuso sul suo network online, tutti e 13 gli espisodi della prima stagione appena prodotta.

Abbiamo avuto l'opportunità di vedere i primi quattro episodi su Netflix, di seguito potete trovare la nostra opinione.

Dimenticatevi Ben Affleck in tuta di pelle, e i tentativi sia pur nobili, ma insufficienti, di Mark Steven Johnson, di portare sul grande schermo in maniera degna, questo bellissimo ma poco conosciuto personaggio, (ormai nel lontano 2003), poichè ciò che Marvel e Netflix hanno prodotto stavolta è quanto di più lontano possibile dal precedente film.

La serie scritta da Drew Goddard (nei primi due episodi) e Steven DeKnight (famoso per il serial: Spartacus), riporta in auge Daredevil, come mai nessun fan del "cornetto" avrebbe potuto anche solo sognare.

NETFLIX non ha badato a spese nel produrre questa serie TV, e l'impegno profuso è mostrato sin dalle prime immagini. La fotografia non è patinata come nei serial di THE CW (non me ne vogliano i fan di questo network), ma ricercata, fredda, realistica, proprio come quella di Wally Pfister, nei film di Nolan.

La serie ci mostra un Matt alle origini, non è ancora Daredevil, ma entra già in azione sin dalle prime scene, vestito di un proto-costume nero. La serie è chiaramente ispirata alla celebre rivisitazione delle origini di Frank Miller e disegnata da John Romita Jr, ovvero la miniserie: "The Man without fear".
Matt ha appena fondato il suo studio legale "Nelson & Murdock" con il suo amico di sempre e compagno di studi Foggy Nelson. Nel loro primo caso conosceranno Karen Page, invischiata in un caso di omicidio che spetterà a loro risolvere. Le premesse di fedeltà al fumetto ci sono tutte, così come tutti i comprimari più noti.

La regia ha un taglio cinematografico con grandi colpi di stile (su tutti un piano sequenza di circa quattro minuti nel finale del secondo episodio, destinato ad entrare a pieno diritto, nella teca della serialità televisiva) ed è al livello di serie come The Breaking Bad, Dexter, Game of Thrones. La trama è sempre verticale, e siamo sempre portati a voler vedere l'episodio successivo. I dialoghi sono fluidi e naturali. Il livello di recitazione è molto alto e davvero non si trovano attori fuori ruolo o di media caratura. Mentre Vincent D'Onofrio come Wison Fisk/Kingpin è già il mattatore della serie (anche se non lo vediamo ancora nel pilot) Charlie Cox è la piacevolissima sorpresa.

Colpisce da subito la sua estrema compostezza, la sua calma, il suo charme, tutti estremamente naturali. Ciò che trasmette è che sia sempre stato Matt Murdock. Matt è proprio come ce lo aspettiamo, gentile, dolce, ma anche risoluto, imperturabile, uno che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno e con un umorismo pungente.

D'Onofrio come Fisk è da Emmy Award. Trasmette un mix di fragilità e spietatezza. Proprio come il Kingpin che tutti conosciamo è capace di brutali follie da un momento all'altro, ma tutto è minuziosamente curato nelle sfumature. Non siamo di fronte allo stereotipo di un boss del crimine con tanto di sigaro in bocca, ma ad un vero boss criminale dalla personalità stratificata e complessa. Non dire il suo nome", conferendo a Fisk un'aura leggendaria nel mondo criminale.

Non ci aspettavamo niente di meno da Vincent D'Onofrio, ma sinceramente non ci aspettavamo neanche questa prova così curata e di alto livello, che rende finalmente giustizia a questo attore, destinato a stare fra i giganti della recitazione (e regalandoci uno dei migliori Marvel-villain mai costruiti).Bellissima in questo senso l'attesa spasmodica che viene creata attorno alla sua prima apparizione con la battuta ripetuta dal suo tirapiedi Wesley: "Non dire il suo nome", che conferisce al personaggio di Wilson Fisk, una statura leggendaria nel mondo criminale.

Hell's Kitchen è una periferia molto credibile, nella sua decadenza fatta di persone discutibili, lampioni gialli accesi a illuminare vicoli bui. Matt è avvocato di giorno e vigilante di notte. E' un racconto sulle sue origini e il bello di ciò è mostrare la sua umanità, poichè un vigilante può essere ferito nei corpo a corpo molto facilmente. Come fu per Bruce Wayne in Batman Begins, la serie si concentra sul mostrare un supereroe in "costruzione". Matt è un vigilante inflessibile e decisamente intimidatorio, che si trova a combattere con personaggi davvero privi di scrupoli, criminali veri, mafiosi di diverse etnie. I criminali già. Dicevamo, criminali veri. La percezione non è quella di vedere brutti ceffi da telefilm, decisamente stereotipati, ma mafiosi veri, criminali spietati, uomini crudeli, proprio come era riuscito a mostrarci Nolan col suo Batman.
Ma laddove Nolan si era forse limitato, per poter proporre il suo film ad un più vasto pubblico (e non ottenere quindi particolari restrizioni) la serialità televisiva NETFLIX, può osare senza problemi. I criminali del Batman nolaniano, erano uomini spietati, crudeli, mafiosi credibili, ma la droga veniva sempre sussurrata, o sublimata dall'allucinogeno del Dr Crane (lo Spaventapasseri), la violenza in qualche modo mitigata. Qui invece il bersaglio viene centrato in pieno, liberi da limitazioni di sorta.
I mafiosi che vengono rappresentati, sono trafficanti di uomini che rapiscono bambini, ricattano senza reticenze alcune, trafficano cocaina facendola produrre a schiavi ciechi. Vedere Matt muoversi in un mondo criminale del genere, è una gioia auspicabile solo da chi conosceva l'Hell's Kitchen del fumetto, quella creata per l'appunto, da Frank Miller (e sviluppata poi da altri autori successivi).

I combattimenti sono in linea con tutto il resto. Finalmente vediamo stunts veri in azione.
I colpi vanno sempre a segno e lo stile di combattimento di Matt è un mix di pugilato e tecniche marziali efficaci (e non per forza da telefilm). Matt porta leve articolari, rompe, colpisce duramente, ma tutto avviene sempre sotto ad una parvenza di credibilità. Stiamo assistendo a una rissa di strada, non a un combattimento di kung-fu (che incredibilmente nei film, tutti i criminali sanno praticare), o ad una versione fin troppo coreografata dello stesso. Siamo lontani anche dalla moda tanto in voga oggi di usare tecniche aeree di forbice al collo e pseudo-MMA (Mixed Marzial Arts) che risultano spettacolari ma non realistiche. Tutti i criminali che affronta Matt, sono personaggi che non vanno giù al primo colpo e Matt spesso fatica non poco a metterli completamente knock out. Anche questo trovo sia stata una scelta in linea con il tono della serie. Siamo agli inizi, Matt si deve perfezionare e soprattutto è solo un uomo, senza i gadget o l'armatura di Wayne. Oltre al suo talento marziale, la sua arma più grande è un indomita forza di volontà e una grinta ereditata dal padre, la forza di rialzarsi sempre quando va al tappeto. Inoltre, rimane l'esigenza di dover dare un pò di filo da torcere al protagonista e quindi rendere  quasi qualsiasi scontro piuttosto difficile e periglioso. La violenza c'è e si vede, ma non è vouyeristica o estetizzante come in Spartacus (sempre di DeKnight), tuttavia non si trattiene e ci mostra sangue e ossa che vengono rotte. Insomma tutto è fatto per andare fino in fondo alle atmosfere, senza ipocritamente nascondersi dietro a un velo.

La cosa che infine colpisce maggiormente è come la Marvel sia finalmente riuscita a produrre qualcosa di questo tipo. Dopo averci abituato ad atmosfere edulcorate, divertenti, con opere di intrattenimento sia per i fan sia per le famiglie (prodotti sia pur validissimi sia chiaro), che mai si accollavano il rischio di prendersi, giustamente, troppo sul serio, ottenendo grandi risultati nella maggior parte dei casi (vedi Avengers) e risultati un pò più discutibili, in minor parte (vedi i tempi comici sballati in "Thor: The Dark World"), ecco finalmente il prodotto "adulto".

Siamo nei dintorni del Batman di Nolan, ma senza esserne debitori, poichè Daredevil è decisamente originale e indipendente, non la classica opera manieristica e ossequiosa verso la trilogia del regista britannico. Tuttavia certamente senza il Batman di Nolan, oggi non si sarebbe arrivati a questo.

Nessuno se lo sarebbe aspettato dalla Marvel, la politica di intrattenimento più leggero era considerata ormai una politica studiata a tavolino, politica a cui la WB/DC rispondeva partendo dalle ceneri di Nolan, con un autorialità seriosa, drammatica e (pseudo)realistica. Invece la "Casa delle idee" ha piazzato l'asso, proprio quando nessuno se lo aspettava. La Marvel (e la Disney forse) hanno finalmente capito che si possono usare medium diversi per canalizzare contenuti rivolti a target diversi, target in linea con le atmosfere di un dato personaggio...come appunto è Daredevil, un vigilante oscuro, alla Batman, decisamente una storia adulta, non un prodotto per famiglie.

In conclusione, la Marvel ha fatto quanto di più insperato da tutti i fan milleriani del Cornetto. Una serie così, neanche nei sogni più proibiti e invece, Marvel/NETFLIX, l'hanno prodotta, rendendo il film del 2003, un lontano ricordo.

Per aver dato finalmente la dignità che questo personaggio meritava, ci sentiamo solo di dire una cosa: GRAZIE.



Buona visione a tutti e fateci sapere la vostra opinione nei commenti.

domenica 22 marzo 2015

POPSOPHIA - Diego Fusaro e Simone Regazzoni: Filosofia, pop, critica e società di massa - Riflessioni e commenti


Nella cornice di Pesaro, per la precisione a Rocca Costanza, dal 2 al 7 luglio del 2014 (sì questo commento è stato scritto un pò in ritardo) si è svolta la quarta edizione del Festival del Contemporaneo che prende il nome di POPSOPHIA, ovvero una serie di conferenze e dibattiti fra intellettuali e filosofi, su svariati temi legati all'attualità della cultura nel mondo contemporaneo.

Pur essendoci accorti ben quasi un anno dopo di questo interessantissimo dibattito fra il filosofo marxista e anticapitalista Diego Fusaro e l'allievo di Derrida, Simone Regazzoni, ve lo riproponiamo nella sua interezza con il corredo di una serie di nostri svariati e articolati commenti a riguardo che trovate di seguito.

Buona visione.

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Seguono le osservazioni al dibattito:

Agli estremi opposti, Regazzoni in certi frangenti pare essere più convincente e coerente del Fusaro nella sua apologia del presente, in quanto è bravo a far emergere l'unico punto debole del Fusaro, che purtroppo, senza che vi sia nessuna colpa da parte di Diego in questo, è una contraddizione irrisolvibile, e vale dire "essere critici di un sistema ma al tempo stesso integrati in esso". A mio parere se ci si ferma ad analizzare la superficie della questione posta in atto, Regazzoni ha vita facile a spuntarla facendo emergere questa incoerenza. Fusaro d'altronde appare come un uomo giovane molto affascinante, di bell'aspetto, elegantemente vestito, che parla un lessico forbito e che fa grande uso dei social network, tutti "stereotipi" tipici del presente (tutti tranne il linguaggio forbito).
Tuttavia è radicalmente critico verso la società del capitale. Nei termini del dibattito questo non può
non apparire come una sorta di "ipocrisia" contraddittoria e parafrasando Regazzoni: "non si può godere di un bene e al contempo criticarlo". Prospettiva inaccettabile. Tuttavia Fusaro risponde sempre punto su punto e le sue argomentazioni sono sempre tutt'altro che banali, anzi sono sempre ficcanti ma allo stesso tempo pacate.
Regazzoni impugna l'arma del dialogo socratico visto più come strumento dialogico a volte ben poco pacifico per accusarlo di nuovo di essere incoerente e radical chic. Questa cosa avrebbe anche senso, sempre se ci si limitasse nel rimanere alla superficie. Fusaro è d'altronde l'unico filosofo oggi (o uno dei pochi) a porre le vere questioni del presente, a collocare la filosofia nella guisa di un dialogo aperto ai veri problemi della società attuale, con buona pace di tutta la popsofia.
Tuttavia le argomentazioni di Regazzoni sono interessanti e anche il suo modo diretto e focoso di dialogare sia pur molto diverso e meno pacato di quello di Fusaro (è normale d'altronde arrivare allo scontro quando ci si confronta su tesi diametralmente opposte), ma la sua apologia del presente rimane troppo superficiale e decisamente più debole della lucida analisi del Fusaro.
Non si tratta infatti di scegliere fra un totalitarismo e una democrazia (sarebbe meglio dire oligarchia presente) nè di stabilire se sia meglio l'una o l'altra. Si tratta di criticare il sistema in cui si vive, pur essendone integrati (poichè, io credo, non vi sono altre alternative a questo a meno andare a vivere su un monte isolato da tutto e tutti). La tesi di Fusaro fa infuriare il Regazzoni proprio perchè si permette di sostenere che il sistema oligarchico del capitale ponendo un nemico invisibile, rimane più subdolo e letale del più becero totalitarismo (che ti ammazza senza mezze misure), poichè nasconde il centro del potere delocalizzandolo e rendendolo invisibile. Non c'è insomma più un nemico da combattere. Questa critica del presente non riabilita in alcun modo alcuna forma di totalitarismo nè le pone a confronto stabilendo quale sia la migliore forma di governo. Si tratta semplicemente di un osservazione facente leva su un paragone.

Infine, si finisce un pò a mò di sfottò mentre Fusaro commenta gli odierni cartoni di Walt Disney nella loro morale finale.
E' vero che può apparire ridicolo porre oggetto della critica del presente, dei cartoni animati le cui storie sono scritte con così tanta leggerezza da apparire tutto meno che una personificazione dell'ideologia del mondo moderno, però ancora una volta Fusaro ha la mia stima per non essersi arreso alle risate in platea e agli sfottò sul palco (anche da parte della conduttrice) nell'esprimere sino all'ultimo il suo pensiero. Ad un analisi superficiale Paperino, Topolino e Paperon De Paperoni sono semplici storielle di svago, così come Willy il Coyote e Beep Beep. Ma qui non si tratta di scoperchiare un ideologia massonica coperta, celata dietro queste storie, bensì rompere il vaso di Pandora del pensiero comune insito dietro queste storie, accettato acriticamente dalla nostra società. Il Paperino continuamente bastonato che non si ribella al sistema è grave se preso seriamente, quanto il capitalista "buono" incarnato da Paperone.
Gli esempi sono molteplici e si potrebbero allargare anche ad altri fumetti che io stesso amo (sono infatti un accanito lettore dei supereroi Marvel). Il punto non è quindi prendere seriamente qualcosa nato per essere leggero, ma porre in evidenzia il sentimento comune, innocente, che essi stessi veicolano, poichè indice di una matrice comune di pensiero che non appena viene messa in discussione scade nel ridicolo. E' questa l'arma più subdola del sistema presente, l'impossibilità di criticarlo, poichè infiltrato talmente in qualsiasi psicologia, al punto da essere pensiero comune che quando viene spontaneamente esposto o riflesso nella scrittura di un innocente cartone animato, è ormai troppo tardi per fermarlo e criticarlo, poichè è come un virus già in circolo nel sangue.

lunedì 24 giugno 2013

L'Uomo d'acciaio (Man of Steel), o se preferite: Superman. Recensione e riflessioni varie.

Dopo un anno di attesa, ecco finalmente nelle sale cinematografiche: L’Uomo d’acciao (negli USA Man of Steel), il celebre reboot della saga di Superman. L’attesissima pellicola, prodotta da Cristopher Nolan, sceneggiata da David S. Goyer (con il contributo dello stesso Nolan a livello di soggetto) è stata diretta da Zack Snyder, regista dei criticati ad un tempo ed apprezzati ad un altro: 300 e Watchmen. Sono infatti proprio le critiche alternate ai grandi apprezzamenti che stanno dividendo pubblico e riviste specializzate, nell’analizzare e scomporre il film. Critiche, forse anche comprensibili, se ci si ferma a pensare quanto il personaggio di Superman, il primo e più famoso supereroe, abbia segnato e continui a segnare indelebilmente l’immaginario “pop” comune, risultando per tutti l’eroe per “eccellenza”.
D’altro canto invece, non si può non rilevare come anche la critica, nell’analizzare e recensire questi cinefumetti (il gergo usato per indicare gli adattamenti cinematografici dei supereroi di fumetti), diventi sempre meno smaliziata e sempre più specializzata, al punto forse da perdere quella tipica e bonaria indulgenza che si offre ai prodotti sempliciotti destinati ad un pubblico infantile. Questa raggiunta consapevolezza è infatti forse un bene, vista l’insistenza a cui ricorrono gli addetti ai lavori nel mondo dei fumetti, per presentare al pubblico le proprie opere ormai da decenni, non solo e non più come storie per "bambini". Questione che va avanti più o meno da quando i fumetti hanno cominciato a lottare per essere riconosciuti come arte ufficiale. Ecco quindi ora il verificarsi dello stesso fenomeno per i fumetti approdati al cinema. Dopo la trilogia de “Il Cavaliere Oscuro” di Cristopher Nolan, molte cose sono cambiate e un nuovo approccio nel “Rinascimento” cinematografico dei supereroi al cinema è stato definito grazie al cineasta britannico: quello dello pseudo-realismo. Ed è infatti questo l’approccio a cui si stanno rifacendo molti cinefumetti degli ultimi anni, dopo l’enorme successo di pubblico e critica che ha riscosso l’opera di Nolan (basti pensare al reboot in chiave drammatica di Sipder-man ad opera di Marc Webb) ivi compreso L’Uomo d’Acciao. Mentre infatti la storica rivale Marvel, può avvalersi di una casa di produzione propria: i Marvel Studios, e miete successi cinematografici uno dopo l’altro (dopo comunque alcuni anni di rodaggio e successi alterni, in cui ingenuamente, furono venduti i diritti di quasi tutti i personaggi a diverse case di produzione, senza curarsi delle conseguenze) sposando in pieno la linea fumettistica e leggera che ancora contraddistingue un certo modo di produrre e girare i cinefumetti (ed avendo toccato l’apice di questo successo, col massimo risultato, in The Avengers, terzo miglior incasso della storia del cinema.), la rivale storica DC/Warner, continua sulla linea pseudo-realistica nolaniana, affidando alle mani dell’autore inglese, il loro figlio più caro e problematico: Superman.
La storia cinematografica di Superman è infatti lunga. Inizia e si consuma in modo particolare fra il 1978 e il 1987. Il primo film girato da Richard Donner con Superman interpretato da Cristopher Reeve, segnerà l’immaginario del pubblico, al punto da risultare - fino almeno al primo Batman di Tim Burton dell’89 - la pietra miliare di tutti i cinefumetti. Pur risultando film dalla qualità e fortuna oscillante, i primi quattro Superman, rimasero così tanto impressi a calce viva nell’immaginario dei fans, da impedirne qualsiasi riscrittura o remake (se non addirittura reboot). Sarà solo nel 2006, che la Warner ci riproverà con il brillante regista degli X-Men, Bryan Singer e gli ottimi Brandon Routh e Kevin Spacey rispettivamente nei ruoli di Superman e Lex Luthor. Il suo Superman Returns, sarà un film decisamente buono, ma risulterà un insuccesso al botteghino ed apprezzato solo da una nicchia di fans, forse perché così legato ai precedenti film di Reeve (il film fu un remake/sequel) da risultare quasi blasfemo l’accostamento ai precedenti, per quanto rispettoso fosse. A nostro avviso invece, sarà proprio il non riuscire a reinventare Superman per il terzo millennio, rimanendo ancorati ad un immaginario pop anni ’70/'80 la vera sfortuna e insuccesso di Superman Returns. Sfortuna e insuccesso che sembrano essere spazzati via finalmente da L’Uomo d’Acciaio.
Dopo il rilancio infruttuoso di Superman Returns, la Warner decide di giocarsi il tutto e per tutto fidandosi della linea intimista e pseudo-realista di Cristopher Nolan, a cui viene dato in mano il progetto dal punto di vista della produzione e scrittura. Viene scelto così Zack Snyder come regista e si opta per un reboot totale della saga così com’è stato per Batman  (e non più un remake/sequel). L'allontanarsi dal vecchio immaginario creato da Donner è sicuramente un bene e fa rifiatare il personaggio e la saga, che priva di una così pesante eredità può reinventare la sua mitologia. Dalle prime immagini e dai primi trailer del film, c’è tuttavia chi critica anche questo approccio pseudo-realista, dimostrando quanto il legame con il precedente immaginario cinematografico, sia duro da recidere. Molti infatti rivendicano gli aspetti più naiff e fiabeschi di Superman, come tratti distintivi del personaggio, tali da impedirne una rilettura pseudo-realistica. L’Uomo d’acciaio può dirsi un film completamente riuscito, proprio perché riesce, prima di ogni altra cosa a reinventare Superman mantenendolo fedele alle sue origini. Come metaforicamente nel film, Pà Kent pone a Clark la sfida di chiedersi che tipo di uomo sarà da adulto (ponendo al vaglio dello pseudo-realismo la questione della moralità “perfetta” di Superman), così L’Uomo d’acciaio, deve rispondere alla domanda: “Nolan e Snyder saranno in grado di ricreare la mitologia di Superman per il terzo millennio?” Senza indugi o lungaggini ulteriori, noi non abbiamo dubbi nel replicare a questa domanda, rispondendo con un fermo: “Sì”. L’idea di affidare una produzione del genere a un autore e non ad un produttore votato semplicemente al guadagno, è stata la vera scelta vincente della Warner. Nolan è un regista/autore con la mania per i dettagli e con un idea di poetica autentica che attraversa il suo cinema. E’ anche un importante fautore della causa che vede la libertà artistica dei registi minata dai produttori. Da regista infatti, sa bene quanto sia difficile poter fare il “proprio” film, senza l’intrusione invasiva dei produttori, ed è a tale causa che, votandosi, ha potuto fornire a Zack Snyder i mezzi migliori per potersi esprimere sul suo Superman. L’Uomo d’acciaio infatti, sarà un film, che nella sua estetica non avrebbe mai potuto essere girato da Nolan. Il tratto mitteleuropeo, pulito e minimalista del regista britannico, non sarebbe infatti stato adatto per rappresentare una storia che pesca direttamente dall’immaginario Sci-fi. Nolan questo lo sapeva e lo ha sempre saputo, motivo per cui ha accettato la produzione ma non la regia, affidandola al buon Snyder, il quale ha fatto sapere di aver avuto la massima libertà, avendo ricevuto Nolan sul set, non più di due volte. Zack Snyder, dal canto suo è un regista di nuova generazione, proprio come Nolan e che a differenza del britannico, forse deve mostrarci ancora il suo vero volto. Sicuramente, non si può per ora, non notare un tratto distintivo dei suoi film. Da Lalba dei morti viventi, a 300, a Watchmen per finire con Suker Punch, il buon Snyder è regista dotato di coraggio. Coraggio che dimostra sia quando mette in scena la controversa graphic novel di Frank Miller: 300, inventando una nuova estetica che lascia a bocca aperta, sia quando dimostra tutto il coraggio possibile andando fino in fondo ad un altro controverso progetto come Watchmen, vale a dire la più importante storia di supereroi della contemporaneità. Film che non sembra essere mai stato abbastanza criticato e bistrattato ingiustamente, anche e specialmente dopo il sonoro rifiuto di paternità da parte dell’autore Alan Moore. E’ chiaro che con un curriculum del genere, Snyder non poteva che essere il candidato ideale, per il coraggioso rilancio di Superman, icona pop che a qualsiasi tentativo di reinvenzione o di semplice remake, pareva suscitare un vespaio di polemiche senza fine.
Una delle prime sfide che il film supera e che costerà la delusione dei potenziali detrattori, sta nel dimostrare come si può rinnovare pur restando fedeli alle origini. Il Superman de L’Uomo d’acciaio, continua a rimanere il Superman che tutti conosciamo. Non è infatti il Superman di una terra alternativa come nella graphic novel Superman: Earth One di J.M.Straczinsky e nemmeno l'ambiguo Hyperion di Supreme Power, figlio adottivo degli USA. Superman rimane Superman, ciò che cambia è il mondo che lo circonda. Il mondo nel quale si muove il Superman degli inizi (quello degli anni '30 per intenderci) è decisamente meno complesso di quello attuale, o meglio, rappresentato in maniera decisamente meno complessa. Il Superman di Nolan/Goyer/Snyder è un figlio di due mondi, un kryptoniano ed un terrestre, testimonianza vivente di una rivoluzione esistenziale su scala universale, punto cardine del destino di due razze ed essere che si confronta con scelte morali difficili e tremende da cui dipende il destino dei molti, prima ancora che la definizione della sua personalità. La sceneggiatura è quindi estremamente concentrata su questi problemi, ed è così che per ovvie ragioni. 
Nel raccontare la storia dell'uomo dietro al costume Clark/Kal, prima ancora che di Superman, molti clichè fumettistici vengono, se non spazzati via, ridotti al minimo indispensabile (basti vedere ad esempio la scena finale del film). Nell’attenzione al rispondere alle molte domande e quesiti etici, che il personaggio di Kal-El/Superman offre, ci si sofferma anche e soprattutto sul rapporto padre-figlio, che qui si ricollega al tema delle due nature del personaggio, solo apparentemente in contrasto, così come gli insegnamenti dei rispettivi padri, sembrano essere solo superficialmente opposti (sia Pà Kent che Jor-El permettono a Clark/Kal di crescere come una persona migliore, seppur seguendo metodi e strade diverse).
Superman non solo sarà sempre un icona di speranza, ma in questo film lo vedremo spesso rappresentato secondo la celebre allegoria messianica, che da sempre risulta una delle principali chiavi di lettura del personaggio. In particolare da segnalare a riguardo una interessante, seppur breve scena, in cui il sottotesto religioso appare più che mai evidente.
In perfetta contrapposizione all'eroe, otteniamo un villain, scritto appositamente per essere funzionale alla storia delle origini su Superman e già utilizzato in Superman II con Reeve, vale a dire il Generale Zod. Accompagnato dalla bella e spietata Faora (che nel precedente film portava il nome di Ursa) Zod, è insieme a Kal-El/Superman, il personaggio più complesso e tridimensionale di tutta la pellicola. Anche qui il balsamo dello pseudo-realismo, mostra i suoi miracolosi frutti. Allo sprecato Kevin Spacey nel ruolo dello stra-abusato Lex Luthor in Superman Returns, si contrappone finalmente un avversario vero, dotato di una psicologia profonda e complessa, per niente caricaturale o fumettistica (nel senso più dispregiativo). Caricaturale o fumettistica come il Lex Luthor genio del male e truffatore (interpretato da Gene Hackman e poi ereditato da Kevin Spacey) a cui eravamo (erroneamente) abituati ad associare i villains fumettistici.
Il Generale Zod è al pari di Magneto, di Loki, di Ra's al Ghul, del Joker di Ledger e del Bane di Hardy, è un personaggio che buca lo schermo al punto da diventare un icona. Un po’ come Bane, Zod è un villain completo, che pone sfide e dilemmi a Superman sia dal punto di vista fisico che psicologico, ed ha motivazioni per il suo agire, chiare e molto ben definite. Sarà infatti proprio Zod a porre a Superman un importante dilemma etico di impossibile risoluzione, verso la fine del film. Ed il bello di questo Superman è proprio questo aspetto, rimanere colui che "fa la cosa giusta", fino a che le circostanze impediscano una situazione priva di conflitti etici veri o di soluzioni accomodanti. E’ la complessità della realtà che irrompe a pieno titolo nelle storie a fumetti, ora sul grande schermo. Come tutte le "realtà" che si rispettino non offre sconti né soluzioni facili, va affrontata cercando in ogni caso di fare la cosa giusta. Non indichiamo ovviamente quale sia questa pericolosa e conflittuale scelta che si ritroverà a fare Kal-El/Superman, per non rovinare il film a nessuno, ma ci basti pensare per similitudine alle sfide offerte dallo stesso Nolan al suo Batman, sfide in cui spesso, non sempre tutti i personaggi uscivano illesi e senza ammaccature.
E’ un tipo di cinefumetto insomma, di cui tutto può dirsi, meno che sia privo di coraggio. E’ lontano dalle visioni accomodanti e semplicistiche dei buoni contrapposti ai cattivi, dove l’eroe riesce in qualche modo a sopravvivere senza che nessuno o quasi, si faccia male.
Su questo versante Snyder, libera tutto il suo immaginario per far sì che l’estetica del film, rimanga un esperienza indimenticabile, fondendosi però con il tono generale della sceneggiatura. Quello che infatti a pochi decisamente  piacerà sarà abituarsi all’idea di vedere Superman, icona della speranza, muoversi in un mondo decisamente più drammatico e problematico. La fotografia deprivata cromaticamente, rifletterà questa sensazione generale tipica del nostro terzo millennio, proprio come si percepiva nel Batman di Nolan. Anche l’ottimo costume di Superman, che finalmente risulta un credibile abito cerimoniale alieno (e non una tutina cucina dalla nonna) opta per una maggiore serietà, rappresentata dai colori classici di Superman (rosso, blu e giallo) molto meno luminosi del solito. E’ così che mentre fotografia e costumi, ci parlano del mondo ormai non più anni ’30 di questo Superman, irrompe il grande apparato scenografico kryptoniano in tutto il suo splendore. In un mix fra ambientazioni primitive/fantasy e tecnologiche/futuristiche, il mondo di Krypton sembra finalmente avere un’identità precisa, collocandosi nell’immaginario comune, come un mondo alieno tecnologicamente avanzato ma al crepuscolo della propria esistenza. Non può quindi passare in secondo piano, l’apparato Sci-fi, estremamente all’avanguardia, creato per rappresentare Krypton stessa. Le astronavi dalla forma insettoide, fabbricate con leghe metalliche incredibilmente scure, quasi da sembrare arrugginite, comunicano proprio la decadenza della civiltà kryptoniana, giunta al proprio tramonto.
Ed è proprio in questo crepuscolarismo, perfettamente in tema con il resto del film, che il nuovo Superman, brillerà ancor di più come speranza per il resto del pianeta Terra, poiché, la luce è vivida e brilla con forza maggiora laddove le tenebre sembrano espandersi ovunque. Snyder però nel reinventare la mitologia “supermaniana” non si ferma agli aspetti pro-filmici e sperimenta con coraggio anche e soprattutto a livello filmico. Nell’accentuare l’idea di realismo, Snyder gira – incredibile ma vero – gran parte di un film blockbuster con macchina da presa a mano. L’idea che vuole dare è quella di un inquadratura sporca, nervosa e “reale”, che appunto stia raccontando qualcosa di autentico, senza filtri di sorta. Questo stile quasi documentaristico o amatoriale è certamente coraggioso e innovativo, anche se, a volte persino invadente o un po’ fuori luogo. In questo notiamo infatti l’abissale distanza fra il cinema di Nolan e quello di Snyder. Pur assolutamente d’accordo a livello di intenti, Snyder è per definizione eccessivo, ridondante, maestoso oltremisura, laddove il cinema-evento di Nolan, è invece sobrio, pulito, decisamente più reale nel senso più autentico della parola, ma non per questo meno colossale o meno emozionante. Snyder così come ama la messa in scena spettacolare (basti pensare alle battaglie di 300), oseremmo dire, barocca per definizione, abbandona i suoi slow-motion (visibilissimi sia in 300 che in Watchmen) per inquadrature veloci e fast-motion, che alternano la ruvida ripresa a mano, per riprendere le scene di battaglia campali che ritroviamo nella seconda parte del film. E’ proprio qui infatti che il film assume toni da disaster-movie, al pari di altri grandi film del genere “apocalittico” come Armageddon o The day after tomorrow.
D’altronde, seguendo il filone pseudo-realista, se si deve mettere in scena in modo realistico una storia irreale, una battaglia non può essere che grandiosa e colossale oltre ogni misura, proprio come le battaglie extra-terrestri di Snyder effettivamente sono. L’apparato Sci-fi del film è infatti uno dei fiori all’occhiello della pellicola, che a lungo sarà presa come riferimento per ispirazioni varie di genere fantascientifico. La regia invece, alternata fra inquadrature nervose e sporche, e fast-motion adrenalici, alterna bene i due registri del film, soddisfatti entrambi in pieno, da un lato nella sete di realismo, dall’altro in quella di fantasia e azione.
Un unico appunto ci sentiamo di farlo però sulle riprese a mano, il senso sperimentale di cui è dotato Snyder, deve però essere regolato e dominato dallo stesso regista, pena: la perdita della giusta proporzione fra i vari aspetti del film. Abbiamo trovato francamente un po’ fastidiosa la macchina a mano in alcune sequenze che tutto sommato non la richiedevano ad oltranza. Un conto è riprendere Clark che parla con il padre a Smallville, un conto è riprendere con senso di (pseudo)realismo, Jor El che parla con il Consiglio di Krypton!
Snyder deve insomma fare attenzione a non far si che il suo sperimentalismo e manierismo nolaniano si trasformi in calligrafismo esibizionista tale da ofuscare la chiarezza del film, anziché aumentarne la sofisticatezza. Perché è sofisticatezza quella di cui stiamo parlando qui, ed è questo il cinema targato Nolan/Goyer/Snyder. Questo non vuol dire contorsionismi mentali, perché Superman rimane una storia lineare che parla di speranza, molto differente da quella di Batman, a detta sia di Nolan che di Snyder. Ma per sofisticatezza intendiamo un cinema, che ama farsi vedere e rivedere per cogliere ad ogni visione, (micro)aspetti e (macro)dettagli che solo ad ulteriori ed approfondite visioni possiamo  cogliere in pieno, addentrandoci sempre più nel complesso e sofisticato mondo (ri)creato. Mondo in cui le origini dell'uomo dietro il mantello vengono narrate in maniera non lineare. La narrazione iniziale, montata alla "maniera" di Nolan, ricostruisce a ritroso l'infanzia-adolescenza di Clark attraverso numerosi flashback che si ricongiungono in maniera congeniale con il presente. La sensazione che ci trasmette è quella di trovarsi di fronte a delle origini da rimettere insieme, proprio come fece Nolan in Batman begins, nel raccontare la genesi dell'eroe dietro la maschera (e come d'altronde gran parte del cinema di Nolan è solito fare). Il montaggio a flashback è davvero l'unico vero elemento tecnico del film, che potremmo definire manieristico e mutuato dalla poetica di Nolan: la ricostruzione spezzettata e non lineare delle origini del personaggio principale.
Dulcis in fundo, le intepretazioni degli attori, in quanto, non vi sarebbe Superman possibile, senza adeguate performance attoriali dietro ad interpreti adatti al ruolo. La scelta che a noi appare migliore in assoluto è quella di Henry Cavill, attore esordiente già visto in alcune pellicole d’azione e non solo, in particolare ricordato come Teseo nel (deludente) Immortals. Già destinato a diventare Superman in precedenza, ma poi scartato da Singer per Brandon Routh, nel suo Superman Returns, Cavill soprende per la conformazione mascellare e scultorea da supereroe statunitense, su cui non vi sono altre parole da spendere. 
L’interpretazione è ottima, Cavill è un Clark giramondo ad un tempo, in cerca delle proprie origini ed un individuo misterioso ed altruista ad un altro, che presto il mondo riconoscerà come Superman. Cavill ci è parso molto dentro al ruolo e in grado di esprimere con naturalezza l’idea di essere Superman. Il Superman di Cavill è da segnalarsi inoltre, come il Superman più vicino all’ideale fumettistico del personaggio, di sempre. Pochi immagineranno infatti che mentre Reeve rimase per anni come l’unico Superman possibile (al punto da essere da ispirazione grafica del personaggio per il disegnatore Gary Frank), fu decisamente poco somigliante - almeno dal punto di vista fisico/muscolare - all’icona fumettistica, da sempre ipertrofica come vuole la tradizione dei supereroi statunitensi. Subito dopo a Cavill ci sentiamo di collocare Micheal Shannon, la cui interpretazione, forse anche perché fuori dai toni, risulta quella in grado di colpire maggiormente. Shannon è in grado di fare il cattivo ma nella maniera giusta, quella che permette agli spettatori di provare empatia con il medesimo villain, per quanto spietato o folle possa essere. Shannon in sostanza ci regala un indimenticabile icona di villain fumettistico, destinata a salire nell’olimpo supereroico cinematografico. Infine una menzione d’onore va a Russel Crowe e Kevin Costner, attori di un’altra generazione, e destinati col tempo a divenire le nuove “vecchie” glorie del nostro cinema. Entrambi assolutamente in ruolo nei rispettivi personaggi e in grado, nelle non moltissime scene e situazioni dedicate (in realtà Jor El ottiene molto più spazio che Pà Kent), di farci sentire di fronte a uomini reali, sui quali vorremmo sapere sempre di più. Ottime anche Amy Adams nel ruolo di Lois Lane e Antje Trau nel ruolo di Faora. La prima quasi in secondo piano per motivazioni di trama, la seconda stupendamente caratterizzata per essere la compagna di Zod. Chiudono il cerchio Diane Lane e Laurence Fishburne, rispettivamente nei ruoli di Martha Kent e Perry White, personaggi meno esplorati in questo film, ma che sicuramente verranno approfonditi nei prossimi sequel, se e quando vi saranno.

Questo in sostanza è quello che a noi è sembrato L’Uomo d’Acciaio. Un film maestoso, in cui realismo e fantascienza si incontrano, fondendosi in un amalgama riuscito. Un film che fa brillare la speranza di Superman, senza paura di sporcarlo o snaturarlo col cinico mondo del terzo millennio. Un operazione difficile nel suo insieme e rischiosissima, proprio perché Superman è un icona quasi religiosa della cultura pop, talmente importante ormai, da essere cristallizzata in un ideale così perfetto, da essere impossibile da realizzare cinematograficamente e quindi secondo i più: irripetibile e irriproducibile. Un film che andava fatto e che era l’unico modo possibile, l’unica, sì, speranza di vedere finalmente il supereroe più grande del novecento, tornare a volare. Il film sicuramente dividerà, ma rimarrà tra quelli che saranno ricordati e resteranno da vedere, sia nel bene che nel male, proprio come la trilogia de Il Cavaliere Oscuro. Trilogia da cui però, L'Uomo d'acciaio è totalmente indipendente e autonomo, pur sfruttando la stessa linea realizzativa. Molti, forse troppi, diranno che è un film poco equilibrato, troppa filosofia nella prima parte e azione nella seconda. Ci ricordano francamente le critiche che vennero fatte all’Hulk di Ang Lee, altro cinefumetto autoriale, che nel duemilatre, divise la critica e incassò poco al botteghino. Per noi quel film fu un vero capolavoro e come tutti i capolavori infatti, spaccò la critica e divise il pubblico dei fans. Come sempre accade le grandi opere dividono e fanno parlare di sé, solo quelle inferiori e mediocri, piacciono, spesso, davvero a tutti. Ci auguriamo quindi, che i contrastanti giudizi su L’Uomo d’Acciaio, ci confermino proprio questo, il trovarci di fronte ad un capolavoro. Ma questo, solo il tempo potrà rivelarlo. Nel frattempo, si può godere ancora di questo Superman più e più volte, sperando anche negli annunciati (nelle intenzioni), ma non confermati (nelle dichiarazioni) sequel, proprio come fu (incrociando le dita) per il primo e sottovalutato Batman di Cristopher Nolan.

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lunedì 7 febbraio 2011

Qualunquemente, recensione.

Cominciamo col dire una cosa. Qualunquemente non è una commedia ironica e divertente, non è uno sketch comico diluito per due ore, non è un pretesto per vedere Antonio Albanese al cinema.
Qualunquemente è una riflessione socio-politica, caricaturale e grottesca (ma neanche poi tanto) sull'Italia di oggi e sugli italiani. Qualunquemente è una "tragicommedia", ci sentiamo di dire, riuscita, come non se ne vedevano dai tempi di Fantozzi.
La trama è ovviamente ricalcata attorno al personaggio di Cetto La Qualunque. Personaggio che nasce dall'estro comico di Antonio Albanese, proposto per la televisione, nel noto programma satirico “Mai dire” della Gialappas band. Cetto La Qualunque è il candidato sindaco improvvisato e cialtrone delle piccole realtà locali del sud italia, che però incarna sempre di più i(dis)valori di una società e di una classe politica dell'italia tutta, senza confini geografici. Nel personaggio di Cetto La Qualunque, abbiamo l'uomo medio stilizzato della seconda repubblica, che scende in politica per interessi personali. Ovviamente oltre che ai politici ignoranti e cialtroni delle realtà locali, qualsiasi altro riferimento a personaggi politici tutt'ora realmente esistenti, è tutt'altro che casuale.
La grande popolarità del personaggio in televisione, ha fatto sì che si girasse addirittura un film attorno alle sue vicende. La trama “pretesto” di cui abbiamo parlato prima, per il film, è quella di un uomo, Cetto La Qualunque, appena uscito dal carcere per vari reati, fra cui banca rotta fraudolenta, carcere in cui ha scontato una pena di sette anni di reclusione. Cetto, che gestisce in maniera illegale un ristorante più altre attività (un lido balneare edificato senza permessi su un rudere storico) decide di scendere in politica, candidandosi come sindaco nel suo comune “Marina di sopra”, spinto dai suoi amici conterranei che vedono in lui, l'antagonista ideale del corretto e per bene candidato oppositore De Santis. La Qualunque è ovviamente quello che può fare gli interessi, di chi, come loro, persegue una vita di benessere e sotterfugi tramite l'illegalità. De Santis quindi sarà costretto a confrontarsi politicamente con Cetto La Qualunque, il quale, disposto a fare di tutto pur di vincere, si lancerà in una gara di sopprusi e nefandezze per schiacciare l'avversario. Volgarità e nefandezze legate apertamente
all'ambito mafioso e criminale. La cosa che colpisce fin da subito è il tremendo sarcasmo che attraversa il film. Cetto La Qualunque è un personaggio insopportabile, talmente è sconfinata la sua volgarità, imbecillità, tracotanza e scorrettezza. Nonostante tutto è una persona di “successo” nella sua terra. I suoi amici, gli amici del bar dello sport, sono lo specchio di un italia, volgare e cialtrona che non paga le tasse, non si comporta eticamente e tende semplicemente ad allearsi col più forte (in questo caso Cetto) per perseguire il proprio interesse. Il film diventa così, da semplice sketch comico, una lucida e cinica commedia fatta di humor nero, stemperato dai toni grotteschi di fantozziana memoria, che però ci riportano al sorriso amaro di chi prima ride e poi si ricorda che si parla di una realtà esistente che ci tocca da vicino. Senza svelare il finale, è comunque palese fin dall'inizio come la vittoria di La Qualunque sia scontata, proprio perchè il percorso di critica alla società e di demolizione dell'uomo comune, iniziato con Fantozzi, nella figura del medio-borghese impiegato cui tutti mettono i piedi in testa, termina ci viene da dire con Cetto La Qualunque, ma ribaltando i ruoli. Se in Fantozzi appunto, è il protagonista ad essere schiacciato da un sistema conformistico e tremendo, qui è il sistema impersonato da La Qualunque a diventare protagonista, pronto a schiacciare inesorabilmente l'avversario “fantozziano”, che però è privo di tratti grotteschi, presentandosi solamente come un uomo onesto e solo, che non può ovviamente trovare spazio nella società cafona e criminale di oggi. La cosa che appunto sconvolge e fa riflettere sia come in fondo, nessuno osi mai, o ritenga opportuno e sensato, opporsi a Cetto, eccetto il suo avversario politico.
Albanese mostra di aver azzeccato il personaggio della carriera e mostra la sua bravura attoriale, nel rendere la pesantezza di un personaggio cialtrone e criminale, senza rendercelo pesante dal punto di vista narrativo. La sua cura inoltre per la “fonetica” del personaggio in cui il linguaggio volutamente storpiato e gutturale di certe espressioni, crea una musicalità originale, che insieme alla ricerca linguistica del nome per indicare un tipo “Qualunque” (col doppio significato di Cettola Qualunque e Cetto come nome, con cognome La Qualunque), rendono visibile e palese la grande qualità del lavoro attoriale ed artistico per creare un simbolo della socio-politca di oggi.

Vorremmo infine dedicare un paio di riflessioni che il personaggio di Cetto La Qualunque ci spinge a fare sulla nostra realtà(non solo italiana) e sui tempi che stiamo vivendo. Non è ovviamente casuale che al giorno d'oggi il tipo “Qualunque”, sia sempre più frequente, portandosi dietro tutta quella sequela di critiche e riflessioni sul decadimento etico e e sui disvalori con cui la società italiana si trova a confrontarsi ogni giorno. E'a nostro modesto parere,da segnalare questa cosa, non solo a livello sociale italiano, ma a livello planetario. Senza voler assumere toni apocalittici o catastrofisti, è nella nostra visione del mondo e della realtà che la storia umana proceda secondo quella che diverse culture hanno profetato come “Dottrina delle quattro età”, cioè età attraverso le quali si sarebbe dipanata una metafisica della storia umana, portando l'umanità in un ciclo cosmico di allontanamento ed infine riavvicinamento dalla dimensione divina da cui l'uomo proviene ed è comunque attratto. I principali riferimenti a riguardo sono nelle sacre scritture induiste e vediche sia in quelle greche antiche, nella figura del poeta Esiodo, ed in particolar modo nella sua opera: “Le opere e i giorni”. In particolare troviamo un riferimento a questo anche nel mito del Ragnarök norenno, inteso come oscuramento del divino in riferimento ad una particolare età dell'uomo.
Le quattro età che quindi simboleggiano le qualità spirituali dell'uomo presentate nei vari periodi, assumono la veste di metalli sempre meno pregiati, partendo dall'oro per arrivare al ferro. La nostra età, appunto quella del “ferro” è l'ultima prima della rinascita (che secondo molti potrebbe essere un anticipazione di ciò che avverrà nel 2012, forse tramite cataclismi che segneranno la fine di un'età e l'inizio di un altra) spirituale dell'uomo, e quindi conseguentemente la più buia. Non è perciò un caso che i disvalori etici della nostra società procedano di pari passo con un allontanamento dall'elemento divino sempre più schiacciato dal materialismo-progressista imperante. Materialismo-progressista che pur tuttavia comincia ad essere messo in discussione dentro al cuore dell'uomo da coloro che per se stessi e per le prossime generazioni sognano altro. A questo riferimento, cioè la critica alla società progressista-illuminista, consigliamo la lettura di un interessante saggio riflessivo di Massimo Fini,“La Ragione aveva torto?”edito da Marsilio.
Ed è quindi in una realtà simile, quale la nostra, dando per scontate le premesse di cui sopra, che un personaggio “Qualunque” come quello del comico Antonio Albanese, può diventare simbolo di quel tipo qualunque che esprime perfettamente il decadimento dell'essere umano, in tutta la sua bassezza.
C'è qualcosa di profondamente insano e sbagliato nel suo modo di essere, nel salire degli scalini con la prepotenza di un “hammer” che ci fanno ricordare come la volgarità e l'essere cafoni, non siano altro che conseguenze di un imbarbarimento culturale e spirituale a cui siamo soggetti, contemplando un unico mondo di piaceri terreni, privi di consapevolezze e disegni più ampi per quello che riguarda il destino dell'uomo. Julius Evola in particolare ne: “L'arco e la clava” analizzava bene questa tendenza comune alla volgarità, sempre più frequente ed in grado di sostituirsi alla vecchia usanza di voler imitare, (almeno fino all'ottocento) le classi aristocratiche superiori, nei modi e nelle usanze, sia pure goffamente, anziché come oggi, provare il desiderio, maledettamente normale, di provare un piacere direttamente proporzionale al livello di "abbassamento". A riguardo consigliamo la lettura del capitolo “Il gusto della volgarità” espressione che sintetizza perfettamente il concetto, da la raccolta di saggi: “L'arco e la clava” edito da Mediterranee. Questa volgarità vista quindi come manifestazione del decadimento spirituale a cui è giunto l'uomo nel Kali Yuga o Età del Ferro, cioè il preciso momento vissuto da noi oggi, ci pare la perfetta equazione di Qualunquemente, film che impersonifica in chiave cinico-grottesca questa tendenza comune, trasformandola in un simbolo ben riconoscibile e tutt'altro che da ignorare.
In conclusione vorremmo chiudere con una citazione del celebre studioso di religioni comparate Frithjof Schuon, direttamente dal suo libro: “Il sole piumato”. Il pensiero è il seguente:

L'autore di queste righe non è un indiano, ma ha assistito a due Danze del Sole nell'interno della Loggia sacra, digiunanado il secondo giorno con gli indiani. E' stato adottato dalla tribù dei Sioux e ha ricevuto il nome di Bright Star” (Wichapi Wiyakpa). Conosce bene certe tradizioni sacre d'Asia e accetta ogni religione vera e tradizionale, però appunto per tale ragione sa che la civiltà moderna dei Bianchi è un errore, e non ha niente a che fare col Cristianesimo; Questa civiltà è deviata e innaturale è contraria non solo al Cristianesimo, ma anche a ogni vera religone. Chi scrive sa che il mondo attuale finirà, in un futuro non lontano. Egli pensa che nulla di quanto è realmente spirituale debba essere perduto. Dobbiamo aggrapparci al Santo Nome di Dio e confidare in esso, quale che sia la sua forma tradizionale. Non si dimentichi mai che la religione è discernimento tra l'Eterno e l'effimero, e unione con l'Eterno. In altri termini, religione è fondamentalmente discernimento e concentrazione; separazione dal male, che è illusione, e unione col Sommo Bene, che è Verità e Realtà eterna”.




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venerdì 7 gennaio 2011

Hereafter, recensione.

Clint Eastwood alla regia è una sorpresa ormai felicemente consolidata. I suoi film connotati da uno stile fortemente intimista, pulito e rigoroso, sono sempre storie umane strettamente legate alla realtà. Il suo stile, decisamente sobrio, insieme alle storie rappresentate, quasi sempre drammi umani, fanno di Eastwood un autore cinematrografico con una poetica in pieno svluppo. Quest'anno, il maestro ci ha voluto regalare l'ennesima perla. Sto parlando ovviamente di Hereafter, nelle sale italiane in questi giorni. Il film tratta di tre vicende umane che si snodano e si intrecciano, attorno al tema dell'aldilà. George un sensitivo che ha abbandonato la sua natura di “medium”, lavorando in fabbrica, poiché decisamente stanco del sovrannaturale e deficiente di una vita pienamente sensoriale; Marcus un figlio di madre alcolizzata con un fratello gemello, che viene a perdere una persona a lui molto vicina e Marie, anchorwoman francese sopravvissuta ad uno tsnumani. I protagonisti seguono un succedersi degli eventi casuale ma che in fondo sembra essere frutto delle loro scelte e quindi in qualche modo governato da un disegno superiore che li porterà ad incontrarsi. E' interessante notare come la sensibilità cinematrografica di Eastwood, orientata comunque verso un realismo sentimentale sobrio e rigoroso(che non scade però, mai nel sentimentalismo o nel pietismo consolatorio), stavolta viri verso un tema, apparentemente irrazionale o sarebbe meglio dire, difficilmente avvicinabile quanto apparentemente incomprensibile (almeno per noi occidentali moderni) che è appunto il tema della morte fisica e di conseguenza dell'aldilà. Per tutte queste premesse, risulta davvero pregevole l'approccio ed il risultato che Eastwood ottiene. Il vecchio Clint non si lancia in facili ed appassionati sensazionalismi di parte affermando un sicuro “sì” di fronte alla dimensione dell'aldilà non facilmente sperimentabile a questo livello di coscienza, come non si lancia in superbi attacchi al “sovrannaturale” ed all'imponderabile con un altrettanto sciocco e superbo “no”. Eastwood preferisce aprire a possibilità, domande e ad un sanissimo beneficio del dubbio diretto probabilmente a tutti gli scettici, atei e razionalisti, sulla vita dopo la morte. Allo stesso tempo però non apre particolarmente alla prospettiva religiosa, che Eastwood sembra vedere nei suoi film come incapace di rispondere ai grandi temi della vita, o comunque inadatta anche solamente a consolare gli afflitti (si pensi allo sbrigativo e freddo funerale vissuto dal piccolo Marcus, o ai video di youtube che appaiono come risposte frettolose o persino minacciose di padri religiosi e di fanatici fondamentalisti). D'altronde lo scarso amore di Eastwood verso l'elemento consolatorio della religione devozionale, lo aveva già mostrato in Gran Torino, nel personaggio di Walt Kovalsky, quando incontrava il giovane sacerdote che tentava di parlargli dell'aldilà, definendolo come un “ventiseienne appena uscito dal seminario, imbottito di buone letture, che gode a stringere la mano ad anziane signore superstiziose”. Più che un attacco antireligioso o ateistico, il suo appariva come lo sfogo di un reduce di guerra, che giustamente non tollerava la predica sulla vita e quindi sulla morte, da chi, giovane e solo teoricamente esperto sulle tematiche ultraterrene, non poteva superbamente insegnargli qualcosa. A onor del vero in Gran Torino il personaggio di Walt incontrava infatti, anche lo sciamano della famiglia dei vicini, di etnia H'mong, il quale, dotato di possibilità divinatorie gli faceva una rivelazione che si scopriva poi corretta, nel corso del film. Eastwood quindi opta per una terza via, una via di stampo “laico” e scientifico. Eastwood infatti nel suo voler aprire al ragionevole dubbio di una vita nell'aldilà, non si sofferma sull'aspetto medianico, il quale riesce persino ad essere ineterpretato in maniera credibile e realistica da Matt Damon, che nel personaggio di George assume certamente un carattere autentico lontano dalle ciarlatanerie di molti altri medium presentati nel film. La medianità viene vista altresì come “maledizione e condanna” (oseremmo dire, correttamente) da chi per George non gode a trarne delittuosamente profitto e diventa addirittura un impedimento per una vita normale e soddisfacente. La medianità viene vista così come una semplice conseguenza di una malattia infantile che pare aver aperto delle porte percettive nel cervello di George rendendolo suo malgrado un “ponte” di collegamento con un mondo intermedio di spiriti, senza però avere una chiara comprensione, potremmo dire, della cosmogonia universale. George è semplicemente un mediatore fra mondi apparentemente non comunicanti. Questa visione ci sembra appunto credibile e sensata, in quanto da sempre nelle civiltà di stampo Tradizionale (ad esempio l'India antica ma forse ancora quella moderna) e quindi di elevato sviluppo spirituale, il medium viene visto nient'altro che come un poveretto che, disgraziatamente, per semplici doti naturali, ha la possibilità di fare da ponte con mondi spirituali, di cui però non conosce l'origine né la destinazione, divenendo senza un adeguato sviluppo spirituale (non essendo appunto un Maestro con piene possibilità sviluppate) un semplice ricettacolo di forze di altri mondi, spesso anche di natura oscura o se non altro pericolosa (o comunque di difficile discernimento). Solo nell'occidente odierno infatti la prospettiva spiritistica, scambiata dai moderni, (sempre più privi di quelle difese spirituali dovute all'abbandono della propria Tradizione se non spirituale, almeno religiosa) anziché apparire alla stregua di un pericoloso esperimento scientifico di comunicazione con forze sottili, comunque ancora periture e terrene in un certo qual modo, può apparire come affascinante o illuminante, anziché come qualcosa di incompreso e pericoloso da cui tenersi alla larga. A questo riguardo, sull'impossibilità di comunicare coi defunti, o comunque con l'illusione che gli spiriti degli stessi sia la loro “anima” dell'aldilà, si consiglia vivamente la lettura de “L'errore dello spiritismo” di Renè Guènòn. Potete trovarlo a questo link.
Tornando quindi al film, l'interessante figura di George non sembra essere la via di ricerca su cui Eastwood ha intenzione di calcare la mano, per quanto la figura di George appaia positiva poichè (per quanto combattuta sulla propria natura fra il dono e la condanna di una vita fuori dall'ordinario) è in grado di consolare veramente i rimasti nell'aldiquà tramite un ultimo contatto autentico con gli spiriti dei propri cari defunti. La via di mezzo ricercata da Eastwood appare nella scienza di frontiera, indagata da una dottoressa di una clinica sperimentale che ormai certa della sopravvivenza della personalità umana tramite un'esperienza extracorporea, decide di avviare uno studio scientifico su di essa, tramite un centro di ricerca vilipeso e snobbato. Ad essa si rivolge appunto l'anchorwoman parigina, uscita cambiata dall'esperienza di sospensione momentanea fra la vita e la morte in seguito allo Tsunami. Questa prospettiva, decisamente più in linea con la sensibilità di Eastwood, sembra essere la linea indagratice verso la quale il regista si rivolge, offrendola eventualmente, come unica risposta plausibile. D'altronde di fronte ad un medium che, giustamente, Eastwood intuisce, non può far altro che mediare fra i mondi, ma che rimane ignaro sui più grandi Sistemi dell'universo, oltre a offrire una consolazione autentica ed il beneficio del dubbio di fronte allo scettico moderno malato di progressismo e razionalismo che esclude a priori possibilità ultramondane, la possibilità di una scienza di frontiera appare come l'unica risposta credibile, per quanto il film come abbiamo ripetuto, si sforzi di aprire al dubbio più che affermare una sicura verità.
In ogni caso, questa pellicola sull'aldilà raccontata con sobrietà, rigore e diversi riferimenti all'attualità (le onde anomale sempre più frequenti pronte a sconvolgere l'illusoria e tracotante tranquillità borghese del moderno) ci appare come una salutare e rinfrescante doccia, di fronte a tanto sovrannaturale probabilmente anche vero, ma in grado di apparire falso poiché falsato da rappresentazioni in chiave semplicistica e sensazionalistica (oltre che eccessivamente sentimentale e pietistica) ma soprattutto di fronte all'imperante e tracotante volontà di potenza dell'uomo moderno occidentale, che giorno dopo giorno appare suo malgrado, forse, sempre meno convinto che la sua breve vita possa essere tutto ciò che esista, anziché una porzione infinitesimale, di un oceano eterno di rivelazioni a cui l'uomo è certamente destinato.




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domenica 24 gennaio 2010

Robbie Williams, Bodies.

Può sembrare un po' fuori luogo ormai, parlare di una canzone che è uscita da molti mesi, ma noi riteniamo sia interessante provare a farlo lo stesso. La canzone è "Bodies" della nota popstar britannica: Robbie Williams. In qualche modo l'aspetto che vorremmo approfondire è quello spirituale legato alla figura di Gesù Cristo, tema centrale della canzone. E' di per sé già molto raro trovare una canzone “pop” che tratti di religione, in senso di spiritualità autentica, ma ancor di più sentirne una che ad un primo ascolto sembri chiaramente delinearsi come un “inno pop” cristiano. La figura di Cristo è spesso riletta e citata a proprio uso e consumo, dalla discografia moderna, quando persino non osteggiata ed offesa in maniera gratuita. In questa canzone sembrerebbe accadere l'opposto. Williams comincia parlando di Dio: “God gave me the sunshine; then showed me my lifeline” (Dio mi ha dato la luce del sole, mi ha mostrato la mia linea di vita) arrivando a Gesù, invocandolo come Salvatore: “And your Jesus really died for me; Then Jesus really tried for me” (E il tuo Gesù è realmente morto per me, Gesù ci provò veramente per me) chiudendo così la prima strofa. Tutto sembrerebbe solare e positivo, le cose però cominciano a farsi meno chiare nella terza strofa, che poi riprendono il termine che fa da titolo alla canzone : “Bodies in the Bodhi tree, bodies making chemistry, bodies on my family, bodies in the way of me, bodies in the cemetery, and that’s the way it’s gonna be.” E cioè rispettivamente: “Corpi nell’albero di Bodhi, corpi che fanno chimica tra di loro, corpi sulla mia famiglia, corpi nella mia via, corpi nel cimitero, e questo è il modo in cui vanno le cose.” Non si capisce infatti cosa centri l'albero di Bodhi, cioè l'albero sacro della leggenda del Bodhisattva (Siddartha Gautama il Buddha) e questo riferimento apparentemente slegato fra l'idea di Cristo Salvatore e quella dei “corpi”. Potrebbe esserci un richiamo alla passione ed alla carnalità del Dio uomo, ma non ci sembra plausibile senza nessi evidenti. La canzone inoltre dopo l'affermazione del ritornello: “All we’ve ever wanted; is to look good naked; hope that someone can take it” e cioè: “Tutto ciò che abbiamo voluto; è di essere belli quando siamo nudi; sperando che qualcuno possa prenderci.” sembra indugiare su questo aspetto della carnalità misto con l'immanenza e la sessualità. La canzone sembra poi contraddire nel finale la tesi iniziale del Cristo Salvatore: “Jesus didn’t die for you, what do you want? (I want perfection) Jesus didn’t die for you, what are you on? Oh Lord” (Gesù non è morto per te, cosa vuoi? - voglio la perfezione - Gesù non è morto per te, cosa credi? Oh Signore), nuovamente contraddetta quasi a mò di gioco dagli ultimi tre cori: “(Jesus really died for you) Ohh (Jesus really died for you) (Jesus really died for you) Ohh”, rispettivamente: “Gesù morì veramente per te” ripetuto per tre volte. Cosa pensare quindi di tutto ciò, difficile districarsi in tutta questa serie di riferimenti ed affermazioni un po' confuse, specie all'interno di una canzone “leggera” pop. Spulciando un po' in rete, però, abbiamo trovato un interessante analisi teologica (trovata per altro da una fonte di seconda mano, crediamo comunque in buona fede, che potete leggere sul forum ufficiale italiano di Robbie Williams) del brano, svolta da un teologo francese di cui non siamo riusciti a sapere di più se non il nome: Jon, ed il nome del sito su cui fu pubblicata, un sito web di teologia: Freelance Theology. Il teologo Jon sostiene infatti che dietro un apparente affermazione positiva della spiritualità cristiana da parte di Williams (come leggiamo sostanzialmente nella prima strofa) emerga una visione new age/nichilista, caratterizzata da questa ossessione dei “Bodies”, cioè dei corpi, che in qualche modo sono centrali nella vicenda del brano e che chiudono la strofa con i versi: “Bodies in the cemetery, and that’s the way it’s gonna be.”, cioè come abbiamo tradotto: “corpi nel cimitero, e questo è il modo in cui vanno le cose.” Una ossessione di finitezza mortale senza un'altra vita, che sconfessa la salvezza ottenuta per mezzo di Gesù, a cui lui in realtà non crede, poiché per Williams non v'è Resurrezione né salvezza, n'è vita nell'aldilà, in quanto citando il teologo Jon, la popstar vorrebbe nient'altro che dire: “Così, in fondo, finiremo tutti nel cimitero, ed è lì che la storia finisce ”. Il riferimento immanentista/nichilista/new age si può riscontrare secondo il teologo Jon, nel verso: “Praying for the rapture “, in cui Williams, sembra pregare per la fine di tutto, che sommandosi all'idea di un Gesù che non salva, come leggiamo negli ultimi due versi finali cantati dalla popstar, troverebbe il significato di una fine di tutto giustificata da una credenza puramente immanente, priva di una trascendenza. Anche se questa idea del “pregare per l'estasi” che Jon interpreta come fine estatica del mondo, ci sembra francamente un po' tirata per i capelli, la diamo per ora buona rimandando le nostre considerazioni alla fine. E' importante infatti per completare il quadro teologico di analisi, considerare anche gli ultimi tre versi del coro che contraddicono nuovamente la tesi, ora negativa, di Williams. Gesù allora è veramente morto o no per noi secondo la popstar britannica? Sembrerebbe di si, che la sua disperazione venga in qualche modo rovesciata ed invece, guardando il video notiamo un'utleriore smentita. Williams, mentre il coro consuma gli ultimi versi di speranza, velatamente in una inquadratura a figura intera sopra l'ala dell'aereo, che dura pochi secondi, fa ripetutamente di "no" con l'indice della mano, come in un messaggio subliminale che ci direbbe, se ancora ce ne fosse bisogno, che in ultima istanza lui non crede al sacrificio di Gesù per l'umanità tutta. Resterebbe inoltre da considerare l'uso del termine “Bodhi” in riferimento all'albero del Bodhisattva, che troviamo nella terza strofa. Secondo il teologo Jon è una semplice aggiunta a scopo fonetico-musicale di ritornello, più che a scopo semantico-lessicale, per creare una assonanza con la parola “bodies”. La tesi conclusiva del teologo è quindi quella di un Williams fortemente alla ricerca di un qualcosa, che spera di trovare nella fede religiosa. Un qualcosa che non trova, sostenendo così una visione della vita nichilista/materialista, che nega la redenzione o la salvezza. Tuttavia Jon trova interessante l'analisi della canzone dal punto di vista teologico-cristiano, per affacciarsi alle idee in merito del mondo moderno. A nostro modesto parere, ci riteniamo quasi in tutto e per tutto d'accordo con l'analisi del teologo, sollevando alcune riserve sul'interpretazione del singolo verso “Praying for the rapture” intesa come estatica fine che non come semplice estasi (cioè uscita da sé), forse un po' strumentale verso tutto il resto. Riteniamo comunque buona e convincente l'analisi di Jon. A nostro parere Williams è più vicino ad un immanentismo e quindi per forza di cose, estraneo al cristianesimo tradizionale che parla di Resurrezione, salvezza e redenzione. Parlando di Cristo è perciò più vicino ad una reinterpretazione pseudo-gnostica e più concretamente new age della spiritualità cristiana, così come la si può vivere oggi. Le sue idee sono sommariamente confuse ed inoltre l'ambito in cui dobbiamo trovarci a riflettere, cioè quello della musica “pop” commerciale, non facilità il compito interpretativo. Ci mette infatti nel rischio di sospettare di trovarci dinnanzi ad una facile dissacrazione pretestuosa, in realtà mirata a vendere più dischi che ad affermare un'eresia. Aldilà che tutto ciò sia vero o meno, resta il fatto che Williams a nostro parere sembra scrivere un inno cristiano pop, che però ai successivi ascolti diviene in maniera ambigua, decisamente altro.




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venerdì 22 gennaio 2010

Io, loro e Lara, recensione

Carlo Verdone segna con questo film un giro di boia nella sua carriera di attore e regista. E' infatti una sua dichiarazione di apertura che potete leggere qui a farlo intendere. Verdone è stufo di fare i soliti film di satira sociale prendendo in giro i malcostumi della nostra società attraverso i suoi personaggi stereotipi dell'italiano medio. Con Io loro e Lara non ha intenzione di cambiare totalmente registro, restando sempre nell'ambito della commedia, ma di raccontare invece la storia di un personaggio, tutt'altro che caricaturale. La storia è quella di un sacerdote cattolico, Don Carlo (interpretato dallo stesso Verdone) missionario in Africa, che torna a Roma in seguito ad una crisi spirituale dovuta in larga parte alle enormi responsabilità e varietà di ruoli di cui un missionario deve farsi carico e ricoprire. Qui a Roma viene spinto quasi a forza a rifugiarsi in famiglia per fare chiarezza su questo momento di crisi. Chiarezza che non riuscirà a trovare dal momento in cui i suoi famigliari non si dimostreranno quegli intrelocutori di cui avrebbe avuto bisogno. A complicare le cose ci si metterà la bellissima Lara (Laura Chiatti) che porterà ulteriormente scompiglio nella già agitata vita del prete. La cosa che colpisce di più, in tutto il film, è ovviamente la figura del protagonista, un prete cattolico. Dopo anni di interpretazioni comiche (spesso con retrogusto amaro) di stereotipi terribili dell'italiano medio, ecco prendere vita un personaggio nuovo per Verdone, in grado di segnare quel giro di boa di cui parlavamo. Il Don Carlo di Verdone è innanzitutto innovativo perchè lontanissimo dalla figura trita e ritrita del pretino da commedia italiana vecchio stile, lontano insomma da quella caricatura che bene si prestava a fini comici. Don Carlo è una persona a trecentosessanta gradi, innanzitutto un prete contemporaneo, non bigotto, con gusti “moderni” e con tutta quella serie di caratteristiche in grado di renderlo prima un uomo e poi un prete e non viceversa. Appare evidente l'intenzione di Verdone di ridare lustro e dignità ad una figura spesso troppo violentemente vilipesa nella società d'oggi. Con buona pace di coloro che leggono e sono in malafede, il prete oggi, da gran parte della popolazione mondiale non è ben visto. Quando infatti, non è sinonimo di pedofilo, il sacerdote assume l'aspetto di un freddo funzionario del Vaticano e da esso stipendiato, ad ulteriore titolo di demerito. Il sacerdote è così attaccato quasi per la sua connotazione anacronistica, in una società di base fortemente razionalista e materialista che non ha problemi a collocare la fede e la religione, materia vocazionale del prete, nella regione dell'astratto e quasi del non-sense. Il prete di Verdone sconfessa tutta questa idea stereotipata: è un missionario, cattolico va bene, ma con i problemi che possiamo avere noi. Innanzitutto è una persona con le aspirazioni di tutti e che ha bisogno degli altri per chiedere e confrontarsi. E' preoccupato quando deve parlare con un Padre sovraintendente che lo fa sentire a disagio. E' imbarazzato ma non ha problemi ad ammettere palesemente di fronte ad esso che nella missione un solo prete non basta: “più che dell'aiuto divino, gli africani avrebbero più bisogno del soccorso civile”, così infatti dice. E' una figura caratterialmente molto ben scritta ed interpretata che chiarisce senza ombra di dubbio la ricerca che Verdone ha fatto sul personaggio, basandosi non sul sentito dire ma sulla conoscenza diretta di preti contemporanei. Il suo prete infatti fa una vita molto complessa ed articolata, vive un sacco di esperienze e non è “quella persona attempata che si sfrega le mani parlando di pace e serenità” come dice lo stesso protagonista. Descriverlo inoltre in una situazione di perenne conflitto per tutto il film, è in grado di far emergere quella grande umanità di cui abbiamo parlato prima. Una fede che traballa è poi il risultato della sua umanità provata, di fronte alle incredibili difficoltà con cui deve confrontarsi nella missione in Africa senza un adeguato supporto. La morale finale sul personaggio è inoltre interessante, si evidenzia la sua capacità di aiutare gli altri persino nella difficoltà, quando infatti i ruoli si ribaltano e i sani diventano i malati (cioè i privilegiati italiani mostrano meno equilibrio dei poveri africani) mentre Don Carlo non riesce, appunto, a trovare nemmeno un momento per confrontarsi, per aprirsi con i suoi famigliari, ad eccezione di un breve scambio con Lara. Ma tutto questo non è ovviamente un elogio fine a se stesso, alla figura del sacerdote, è anzi un modo per porre domande e spunti di riflessione allo spettatore più o meno velati, che sposandosi con la leggerezza della commedia bilanciano bene l'equilibrio del film tra risate e gusta riflessione. Infatti stiamo sempre parlando di una commedia, ma Verdone non nega, anzi afferma di aver voluto fare un film un po' più serio in grado di far anche riflettere e non solamente di far ridere. Attraversano il film quindi, tematiche complesse come quella del preservativo nelle condizioni limite del continente africano (dilaniato dall'aids). Fortemente ammonito dal Vaticano, è invece quasi sostenuto dalla piccola verve polemica di Don Carlo con il suo sovraintendente cattolico. Quasi un modo per rimarcare, che, una posizione così rigida a riguardo non può che arrivare da chi non fa il missionario ma si occupa di semplice dottrina. Ed ancora: il tema della dignità della persona umana, lo scadere dei costumi occidentali (su cui gioca con retrogusto amaro la sua commedia) e molto altro ancora. Molto altro che vi invitiamo a toccare con mano, come invitiamo anche a ricredervi sull'idea che avete del prete d'oggi, nel caso non andasse oltre quella del freddo funzionario cattolico. I preti che Verdone omaggia con il suo Don Carlo, esistono, non sono fantasia, ma invece il rovesciamento della medaglia di una realtà spesso fin troppo grigia in materia di fede e religione.




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